“Poche volte si può scrivere di un capolavoro e questa è una delle poche volte.“”
“The Look of Silence” è la seconda parte del dittico di Joshua Oppenheimer incominciato due anni fa con “The Act of Killing“. Nella prima parte il regista texano raccontava l’orrore del regime militare attraverso le interviste ai capi degli squadroni della morte che dal 1965 uccisero oltre un milione di persone nell’Indonesia retta da Suharto. Con quest’opera cambia il punto di vista, si passa a quello delle vittime. Il motivo di tale violenza era quello di ripulire il paese dai comunisti che venivano dipinti dalla propaganda come persone prive di morale e non credenti in Dio. La sinestesia del titolo non è altro che l’immagine ricorrente dello sguardo di Adi Rukin, fratello minore di una delle vittime del massacro nello Snake River del 1965. E il fiume viene ripreso dall’alto, all’alba, con il ponte d’acciaio che domina il suo lento flusso. Sembra impossibile che negli anni 60 fosse il teatro di tale mattanza.
Durante le riprese del primo film Oppenheimer aveva conosciuto Adi e aveva ascoltato la storia del fratello, di come l’avessero rapito e violentato. Riuscì a fuggire fino a casa ma poi fu ripreso e portato via per sempre. Dopo aver concluso le riprese, Oppenheimer aveva “la sensazione precisa che ci fosse ancora qualcosa da esplorare, che ci fosse ancora un altro film da girare e che quella vicenda non fosse conclusa”. E così, racconta sempre il regista, ha iniziato a lavorare su questa storia. Adi decide di incontrare gli uomini responsabili della morte del fratello, ancora oggi impuniti e in ruoli di potere. Fa indossare loro degli occhiali per esaminare la vista. Chiede loro se ci vedono meglio con una lente in più o in meno: costruisce la metafora dell’impossibilità di mettere a fuoco i motivi del genocidio. Dopodiché, comincia a porre delle domande sul passato. Il suo sguardo passa dalla durezza che riserva agli intervistati all’amorevolezza per i genitori anziani. Se la madre non si rassegna, il padre è, ormai, troppo vecchio. Per gli anziani del villaggio, invece, il passato è passato e sarà Dio a fare giustizia.
Attraverso l’indagine non si cerca vendetta, ma si cerca di comprendere: anche per questo motivo vengono chiamati in causa i figli degli assassini. Le scene in cui Adi parla a questi uomini in presenza del genitore, responsabile dei massacri, sono agghiaccianti. Il più delle volte sono giovani che apprendono per la prima volta cosa sia stato il padre; qui gli sguardi di silenzio sono di paura e smarrimento. È il confronto tra due generazioni, il bilancio di una terribile eredità.
La responsabilità di una generazione, l’impunità, il perdono: sono solo alcuni temi in quasi due ore di documentario. Il silenzio dello sguardo di Adi, pieno di domande senza risposta, è un urlo di dolore. “The Look of Silence” è puro cinema nel diventare testimonianza della Storia, non offrendo alcuno sconto neanche alle pesanti responsabilità americane. Diventa anche un’inchiesta pericolosa perché condotta nel territorio dei responsabili ancora in forza; questi ultimi tentano, infatti, più volte, di far breccia dell’anonimato di Adi facendo domande sulle sue origini e su chi fosse il fratello.
Oppenheimer racconta tutto ciò con una cinepresa fissa sui volti e con una fotografia dalle luci morbide che permette di evidenziare bene i colori caldi. Il grande merito del regista texano è di dirigere senza mai essere protagonista, lasciando andare avanti i vari intervstati, soffermandosi su di loro anche nelle pause e nei silenzi. Un grande documentario che diventa vera testimonianza di un passato che si vuole oscurare. Un brivido coglie lo spettatore sui titoli di coda: i tanti “anonimi” che scorrono sullo schermo fanno capire che il passato è ancora presente.
Recensione tratta da www.ondacinema.it
L’intervista all’autore del film: